Formazione

Smart Working e Smart Worker. C’è differenza?

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Durante questi mesi si è parlato tanto di smart working, spesso presentato come grande novità necessaria, nel momento in cui è stato chiesto ai lavoratori di non uscire di casa. Nei fatti, tuttavia, nella grande maggioranza dei casi corrisponde al buon vecchio telelavoro, o lavoro a distanza, come sottolinea Enrico Sassoon nell’editoriale di HBR di questo mese.

“Tale Smart Working nella maggioranza dei casi ha corrisposto in questi mesi a un semplice trasferimento di attività dal luogo di lavoro al domicilio personale, senza che l’organizzazione potesse fare molto di più che non dare le risorse minime per lavorare da casa. Essenzialmente, il pc e lo smartphone, mentre di solito eventuali ulteriori elementi, quali la banda sufficientemente larga o la stampante, sono dipesi dalla disponibilità del lavoratore di metterli a disposizione o di dotarsene secondo l’esigenza.

Dunque, non di lavoro intelligente si è trattato, in quanto non precedentemente pensato e organizzato, bensì di lavoro a distanza che, a quanto sembra, ha interessato (e in parte interessa ancora) qualcosa come 8 milioni di lavoratori, contro i 500mila stimati prima della pandemia” commenta Sassoon.

In fin dei conti, però, questa moldalità di lavoro sembra aver funzionato abbastanza, senza particolari cadute di produttività, senza interruzioni catastrofiche o incurabili difficoltà. I lavoratori si sono mostrati intelligenti e “smart” anche quando il lavoro non lo è stato. Possiamo parlare di Smart worker, dunque, più che di smart work.

La questione dell’approccio individuale è rilevante, soprattutto oggi che – a causa della crisi e della pandemia – si tornano a valutare seriamente questioni legate ad esempio all’ansia. “L’ansia è generata da paure legate a fatti reali o solo immaginari e compromette sia la salute mentale delle persone che ne sono soggette, sia la loro performance lavorativa. Dunque, è bene in primo luogo che i leader delle imprese, ma anche i dipendenti ed eventualmente anche le organizzazioni sindacali, ne siano ben consapevoli e che, in secondo luogo, si affronti il problema con gli strumenti appropriati.

È una questione non banale perché per le singole persone, a tutti i livelli, riconoscere di avere tale disagio è già difficile, comunicarlo pubblicamente è spesso impensabile. Esiste un bias riconosciuto che costituisce un ostacolo da superare e in questo la responsabilità dell’organizzazione si somma a quella di ciascuno di noi” scrive Sassoon.

L’ansia si può manifestare in molti modi. E di solito gli esperti consigliano ai lavoratori di affrontare il tema in azienda in modo franco e aperto. In modo tale che il capo e i colleghi contribuiscano alla presa di coscienza e rappresentino un aiuto terapeutico con la loro comprensione e collaborazione, ma anche compassione e amicizia.

In aggiunta a questo, possono venire in aiuto strumenti (e professionisti) in molte aziende oggi ampiamente disponibili. Parlare di mindfulness e intelligenza emotiva è ormai pratica acquisita in molte organizzazioni, ma oggi esistono strumenti e metodologie una volta impensabili in azienda, come i luoghi di riposo e meditazione, le sale dedicate all’esercizio fisico o allo yoga, le sedute individuali o collettive con terapeuti qualificati.

In conclusione, strutturare un lavoro intelligente anche per le necessità future richiede di trattare il tema sotto il profilo concreto ed organizzativo, ma certamente anche sul piano psicologico dei lavoratori. Evitando dunque di lasciare il compito solo all’intraprendenza dei singoli, per quanto intelligenti.