Interview

Intervista a Francesco Granata

Il Dott. Francesco Granata ricopre il ruolo di Executive in Warburg Pincus (London), una delle maggiori società di Private Equity con un portafoglio attivo di circa 125 aziende. Il suo ruolo riguarda l’identificazione e valutazione di investimenti nel settore della biofarmaceutica. Il Dott. Granata è Laureato in Medicina ed ha ricoperto ruoli di Executive Vice President Biogen Idec e prima di President Europe& Canada di Schering Plough. Precedentemente ha ricoperto ruoli apicali in Pfizer, Pharmacia, Dompé Biotec e Glaxo.

Qual è Il trend delle operazioni di PE nel settore biofarmaceutico? Quali le opportunità PE più evidenti dinanzi a business models  in trasformazione  (M&A, de-merging, separazione B.U., cessione prodotti maturi)? E l’Italia, è un mercato interessante oppure marginale?

Il settore biofarmaceutico rappresenta un’area di focalizzazione per i fondi di PE. I trend di invecchiamento della popolazione e di ampliamento della domanda di salute, sia nei paesi emergenti sia in quelli più sviluppati, proiettano una crescita costante del mercato, anche se con dinamiche e caratteristiche diverse in relazione alle aree geografiche. Esistono ulteriori fattori che trainano l’interesse dei fondi di PE verso questo settore, quali: frammentazione tuttora esistente del mercato, che autorizza a pensare che esistano significative opportunità di consolidamento in molti settori;  presenza di aziende di medio piccola dimensione che offrono opportunità di sviluppo tramite adeguati investimenti e rafforzamento dei management teams; presenza di aziende, anche di paesi emergenti, che necessitano o necessiteranno di acquisire piattaforme per avere accesso a tecnologie, pipelines o strutture commerciali in aree geografiche specifiche o semplicemente di aumentare i fatturati e realizzare sinergie; presenza di numerose family owned companies, per lo più di medie dimensioni ed in genere ben gestite, che potrebbero trarre vantaggio da un periodo di partnership con fondi di PE finalizzato ad un significativo rafforzamento dell’azienda e ad una successiva quotazione in borsa. In questo contesto l’Italia rimane un’area di interesse, sopratutto in alcuni settori specifici, anche se in alcuni casi le rigidità e i problemi del paese possono rappresentare un importante freno agli investimenti.  Il challenge per i fondi di PE e’ rappresentato comunque dal processo di selezione delle opportunità, che deve soddisfare precisi criteri, tra i quali le prospettive di crescita del mercato in cui l’azienda opera, le prospettive di crescita, organica e non, dell’azienda stessa, la qualità del management, la governance possibile, i rischi e le opportunità, i rendimenti attesi e possibili, le prospettive di exit, etc.

Parliamo delle conseguenze sui manager in una operazione da parte di Private Equity. Il “management  team” (da tenere o sostituire o integrare)  dell’azienda su cui investire riveste interesse  secondario  rispetto ai fattori finanziari o di mercato  oppure  è un valore serio  tale da condizionare la fattibilità dell’operazione?

Io ho alle spalle una carriera nell’industria farmaceutica italiana ed internazionale, prevalentemente in aziende di grandi dimensioni. Oggi amo dire a colleghi e amici che se avessi scoperto il mondo del PE dieci o quindici anni fa, avrei  seriamente considerato opportunità di gestire e sviluppare aziende possedute da tali fondi. In effetti, un forte CEO ed un forte management team sono non uno dei tanti criteri di investimento, ma probabilmente il più importante criterio. Noi non investiamo in nessuna azienda se non siamo convinti che il CEO ed il management team siano adeguati a sviluppare e poi implementare un business plan volto a incrementare il valore dell’azienda in cui investiamo. Dove questo elemento manca investiamo solo dopo aver  trovato il CEO ed il team adeguati. Di converso il CEO ed il team sono resi partecipi, in modo molto significativo, dello sviluppo del valore, attraverso piani di incentivazione potenzialmente molto remunerativi. Questa è una grande opportunità, a mio avviso, per Ceos e teams esperti e dinamici, con attitudini imprenditoriali e amanti del rischio, cui il fondo comunque fornisce adeguato supporto via la costituzione di boards che complementano le skills e capabilities dei teams.  Io sinceramente  suggerisco a chi ha queste caratteristiche di identificare opportunità di acquisizione di aziende, sviluppare un ‘investment thesis e portarla a un fondo di PE per discuterla e poi eventualmente gestirla con il supporto del fondo stesso.

Uno sguardo sull’ Italia. Non le sembra che le aziende in Italia subiscano mediamente  conseguenze negative di “disruption” organizzativa e manageriale (vedi Pfizer con Pharmacia e Wyeth  e MSD con Schering Plough), in caso di operazione M&A o simili?

E’ possibile che questo avvenga, ma i problemi possono essere efficacemente gestiti  se  il progetto e’ valido sotto il profilo industriale (ed in genere lo è), se il management e’ allineato sugli obiettivi, coinvolto nella definizione dei piani e poi focalizzato sulla execution. Aggiungerei anche se la execution del piano e’ veloce e, ancor più importante, se e’ fatta con focalizzazione sul rispetto delle risorse umane coinvolte. Per quanto riguarda il management, un M/A può essere una grande opportunità di sviluppo, sia come carriera, sia come acquisizione di un’ulteriore esperienza. Perché ciò si realizzi occorre comunque che una delle priorità dell’ azienda che acquisisce o del team che gestisce un merger sia quella di offrire opportunità indipendentemente dall’azienda di provenienza. I risultati di un M/A devono comunque essere valutati a distanza di alcuni anni, scorporando dalla valutazione i benefici prodotti dall’M/A di per sé dai risultati ottenuti dal management e dai risultati generali dell’azienda post merger, che sono due cose diverse. Se si usa questa lente nella valutazione si può vedere che M/As hanno in genere creato valore.

Qual è la sua valutazione, in generale, sul management italiano rispetto al management europeo o nord-americano o giapponese? E’ vincente o perdente?

Non ho mai riscontrato alcuna differenza di qualità , ne’ in senso positivo ne’ in senso negativo, nei manager italiani rispetto a quelli del ROW. Ci sono numerosi esempi di manager italiani di grande successo a livello internazionale e trovo eccellenti managers o professionals italiani in tutte le aziende del mondo. Alcuni piccoli suggerimenti per managers italiani che vogliono fare carriera internazionale. Prima di tutto occorre guardare a sé stessi come membri di teams globali, cercando sempre di mediare tra le priorità globali stabilite e  le proprie responsabilità particolari o locali (soprattutto oggi che le aziende sono globalizzate e highly matrixed). E’ opportuno fare esperienze fuori dell’Italia abbastanza precocemente, ma solo dopo aver acquisito una sufficiente esperienza professionale. Occorre essere dei global thinker, con la capacità di interagire con culture ed esperienze diverse e trovare il valore nelle diversità, portando i propri valori ed esperienze come integrativi e non sostitutivi.

Vi è la percezione che il  management italiano in generale sia  non influente  nel  contesto farma internazionale (mentre  è valido se gioca nel campionato domestico).  Quale è il suo parere?  Da che cosa dipende?  Dalla debolezza  del  nostro  sistema  R&D ed industriale farma, da valori culturali, dalla scarsa  internazionalità, o altro?

Non concordo con questa percezione. Io penso che il management locale abbia un ruolo fondamentale nel successo di ogni azienda. Io ho sempre sostenuto, come principio di management, che in un’azienda internazionale occorre avere forti strutture globali, responsabili delle strategie e dei piani operativi high level, che interagiscano con forti strutture locali (country based, non regional based), responsabili di fornire l’input dei mercati e dei clienti, di partecipare alla elaborazione dei piani globali e infine della loro flawless execution con un po’ di adattamento locale. Tutto ciò nello spirito di one company one team, nel senso che i team globali devono considerare le risorse locali come parte del loro team e viceversa i team locali devono considerare le risorse globali come parte del proprio. Se questi principi sono applicati, il peso del management locale e’ grande e produttivo. Qualche volta mi capita di osservare persone con responsabilità globali che pensano di sapere tutto e di non dover interagire con i team locali, ma anche qualche volta responsabili o teams locali che vogliono reinventare tutto; sono ambedue atteggiamenti da evitare.

Un aspetto diverso  riguarda il management delle aziende internazionali italiane (in larga parte “family owned companies”) che sembra scostarsi dagli standard  multinazionali, ma in possesso di alta qualità ed efficacia. Quale la valutazione da parte di PE?

Ho osservato un grande sforzo da parte di queste aziende focalizzato ad un significativo upgrade del management, con risultati che mi sembrano molto concreti e interessanti. Questo va di pari passo con un significativo sforzo per sviluppare le aziende stesse sia a livello di portafoglio e pipeline,  sia a livello di espansione geografica. Gli imprenditori italiani mi sembrano in prima fila in questo processo, che in parte e’ dipendente dalla qualità’ delle risorse manageriali, e sono certo che i risultati premieranno  la loro visione e il loro coraggio. Resto convinto che in alcuni casi questi processi potrebbero essere accelerati da un periodo di partnership con un fondo di PE, con un obiettivo a medio termine di una quotazione, in particolare se parte del processo di sviluppo può essere legato ad una o più acquisizioni trasformative.

Che cosa suggerirebbe alle aziende in Italia per sviluppare un management competitivo a livello globale? E che cosa suggerirebbe ad un manager per una carriera di successo nel farma?

Premesso che mi sembra che le aziende italiane non abbiamo bisogno di molti consigli, direi che uno degli elementi chiave per sviluppare un grande management  team sia innanzi tutto di avere un board (anche sotto forma di stategic advisory board) di alto livello, che possa portare esperienza internazionale, capacità di fare challenge positivo sulle decisioni strategiche, capacità di coaching e che espanda il networking internazionale. Cercherei anche di fare in modo di attribuire deleghe precise e di creare spazi di autonomia, in modo da attrarre manager di livello e di farli crescere. Userei  poi supporti esterni per definire piani precisi e professionali di talent management e di talent development. Agli aspiranti managers suggerisco di pensare globale, di essere focalizzati a loro volta sullo sviluppo dei loro team e sulla qualità del management, di fare esperienze all’estero, di essere creativi e di pensare in grande, ma poi di filtrare le loro idee attraverso robusti processi di analisi, e di dedicare tempo e risorse ad una exquisite execution dei piani che sviluppano.

Una sua opinione sulle  imprese biotech. Vi è valore nella ricerca italiana e quale è l’interesse delle Private Equity nei confronti delle start-up italiane biotech?

Vi e’ un valore molto grande nella ricerca italiana, c’e’ un gran numero di early stage projects e di start ups di alto livello. La scienza nel biomedico (e non solo) in Italia e’ veramente di alto livello. Quello che manca, almeno in parte, e’ l’accesso al capitale di rischio, che in Italia e’ meno sviluppato che altrove. Penso che ci sia una opportunità di creare un fondo di venture capital misto pubblico/privato focalizzato sul settore life science in Italia. Questo creerebbe un profittevole volano di sviluppo per il nostro Paese. Uno sforzo tra pubblico e privato in questa direzione può produrre grandi risultati.

Infine, una curiosità.  Lei avrà seguito all’inizio di questo anno la polemica  su Forbes tra John LaMattina  (già capo R&D di Pfizer) e gli autori di McKinsey su operazioni M&A. Questi ultimi hanno valutato in un Report positivamente le operazioni M&A nel farma, invece LaMattina ha evidenziato che , specie per l’R&D, il fattore “disruption that the integration process causes is immeasurable”, con impatti violenti su strutture e risorse.  E noi aggiungiamo anche sulle organizzazioni delle Subsidiaries italiane. Che cosa ne pensa? M&A aggiunge o distrugge valore di  competenze e di  management?

Sono più d’accordo con McKinsey, che valuta le operazioni in maniera distaccata e globale. Tuttavia conosco personalmente John LaMattina, e lo stimo molto sia come professionista sia come persona. E’  possibile che la sua valutazione rifletta esperienze personali e casi singoli, e non ho dubbi che casi di impatti negativi su strutture e risorse si siano effettivamente verificati. Come investitore guardo comunque ai trend e ai risultati nel loro complesso, e continuo ad essere convinto che in generale si sia creato valore.