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Il lavoro “agile”, lo Smart Working e la rivoluzione delle relazioni professionali

photo by Cytonn Photography

 

Conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi di lavoro “agile” e smart working. Modalità di lavoro che si configura come un nuovo approccio all’organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.

Liberi, flessibili, responsabilizzati e autonomi. I lavoratori agili sono in aumento, anche nell’industria farmaceutica (Sanofi, MSD e altre). Ma la nuova realtà è ancora di nicchia e richiede un nuovo approccio culturale, che deve passere necessariamente anche attraverso il “diritto alla disconnessione”. [member]

I concetti di “lavoro agile” e “smart working” ricomprendono molteplici aspetti. Si passa dalla flessibilità dell’orario e del luogo della prestazione lavorativa fino a forme di welfare aziendale per facilitare i lavoratori genitori o impegnati in forme di assistenza parentale.

Va specificato, però, che lavoro agile e smart working non sono sinonimi: il secondo è solo una declinazione del primo. Il lavoro agile è un insieme di nuove visioni, nuove organizzazioni e processi, nuovi rapporti gerarchici, flessibilità di orari e relazioni, persino nuovi spazi e arredi, in cui la dotazione tecnologica e la digitalizzazione rappresentano, sì, una caratteristica importante, ma non l’unica né la principale. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha definito sinteticamente i quattro pilastri del lavoro agile:

  • revisione della cultura organizzativa
  • flessibilità di orari e luoghi di lavoro
  • dotazione tecnologica
  • spazi fisici

Quando doveva ancora essere implementato, ne avevano tutti paura. Si temeva la scarsa produttività, il minor coinvolgimento, il senso di isolamento. Si facevano fosche previsioni sul lassismo e sul rispetto delle tempistiche e, soprattutto, non si sapeva come affrontare il mancato controllo, una leadership da reinventare, nuovi punti di riferimento da definire.

Paure infondate. Perché, da quando lo smart working è stato regolamentato per legge (13 giugno 2017), il suo successo si è dimostrato travolgente e si sta affermando con diffusione e convinzione sempre maggiori.

Nell’ambito delle misure adottate dal Governo per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 (coronavirus), il Presidente del Consiglio dei ministri ha emanato poi il 1° marzo 2020 un nuovo Decreto che interviene ulteriormente sulle modalità di accesso allo smart working.

L’ordinamento italiano lo definisce “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Si tratta dunque di una vera e propria rivoluzione, non solo nel modo di lavorare, ma anche, se non di più, nel modo di gestire il lavoro. Soprattutto perché, a fronte di maggiore libertà, autonomia e flessibilità dei lavoratori, sono i manager a dover ripensare a nuovi stili di leadership che si basino su carisma, coinvolgimento e condivisione piuttosto che sul “controllo”.

Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha evidenziato che “Smart working significa ripensare il telelavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio”.

Un approccio che viene auspicato e desiderato su larga scala e che, nella sua declinazione di “digital transformation”, viene considerato tra i primi posti delle priorità aziendali, ma che si scontra con una difficile realtà.

Il primo passo per implementare in modo realistico e proattivo il lavoro agile è quindi un profondo e necessario cambio culturale, come testimoniano i dati di ricerca di Top Employers Institute (ente certificatore globale delle eccellenze in ambito HR che nel 2019 ha analizzato e valutato oltre 1500 aziende in 118 Paesi del mondo), che confermano la galoppata trionfale del lavoro agile e registrano che ben l’81% delle aziende esaminate lo considera una nuova forma di cultura aziendale, che favorisce la collaborazione tra dipendenti e una loro valutazione efficace e continua. Un nuovo modo di vivere e considerare il lavoro che si riflette anche nella progettazione e sistemazione degli uffici: l’81% delle aziende, infatti, provvede a un restyling degli ambienti, sia fisici sia virtuali, per adattarli alle nuove esigenze dei lavoratori agili. E anche la comunicazione tra manager e collaboratori si adegua: il 70% delle aziende utilizza i social media e li considera strumenti-chiave per una comunicazione efficace e diretta.

E la produttività non ne soffre, anzi. Sempre dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano arrivano cifre che parlano di circa 480.000 dipendenti che nel 2019 hanno usufruito dello smart working, con una crescita del 20% rispetto al 2018 e un effetto di aumento della produttività di circa il 15%. Più liberi, più coinvolti e più produttivi. E i vecchi timori svaniscono.

“I numeri non bastano a definire una vera e propria trasformazione del modo di lavorare, che richiede un cambio di mentalità e di approccio. Da una parte, il lavoro agile offre adattabilità, flessibilità, agilità e libertà, dall’altra richiede l’aprirsi a nuove categorie concettuali che ribaltano certezze fino a ieri inamovibili. Ecco allora la necessità di saper passare dal concetto top-down di profitto a quello di obiettivo condiviso; dalla gerarchia al networking; dal controllo al coinvolgimento”, sottolinea Massimo Begelle, Country Manager Italia di Top Employers Institute.

A fronte di libertà e flessibilità l’altro lato della medaglia presenta il rischio della “connessione continua”, con messaggi, mail e whatsapp attivi 24 ore su 24. Un atteggiamento che ormai molte aziende affrontano a livello contrattuale. [/member]