Interview

Alberto Colzi: intervista e carriera

Carriere Internazionali

Executive Q&A

Alberto Colzi, laurea in Ingegneria elettronica all’Università di Pisa e postgraduate degree in Business Administration alla Durham University in UK, entra in Abbott Italia nel 1991. Fino al 1998 ha ricoperto vari ruoli nell’area Marketing. Nel 1998, è promosso Commercial Director, Latin America e nel 1999 viene nominato General Manager di Abbott Chile. Nel 2004 viene chiamato a ricoprire il ruolo di Regional Director, Southern Europe mentre nel 2006 è nominato General Manager e Amministratore Delegato di Abbott Italy. Nel 2010 assume il ruolo di Divisional Vice President, Central and Eastern Europe. Nel 2013, a seguito della separazione della divisione Biopharma di Abbott e della creazione di AbbVie, viene nominato Area Vice President EEMEA – Eastern Europe, Middle East & Africa della nuova azienda.

Dal 2016 è President International dell’Head Office di AbbVie a Chicago.

Q.1  Dallo scorso Giugno 2016 ricopre il ruolo di President International EEMEA – LATAM – JAPAC. Ci parla del suo ruolo?

Nel mio nuovo ruolo coordinerò le attività commerciali di AbbVie nelle tre aree geografiche di EEMEA (Eastern Europe Middle East Africa), LATAM (Latin America), JAPAC (Japan Asia Pacific). I mercati che afferiscono all’area International sono da un lato emergenti, penso a Brasile, Russia e Cina, dall’altro maturi, come Giappone o Australia. Pur con esigenze differenti, per tutti i paesi della nuova Area un coordinamento centralizzato delle risorse e dell’approccio strategico rappresenta una grande opportunità di ulteriore competitività all’esterno e di maggiore influenza sulle strategie globali all’interno dell’organizzazione.

Q.2  A proposito di percorsi internazionali. La transnazionalità dei business tende a far perdere la connotazione nazionale e quindi ad avere un management apolide. Infatti, il neolaureato che entra in AbbVie o in Novartis sa di entrare a far parte di un mondo americano o svizzero. Così come il neolaureato che entra in Chiesi, Recordati o Menarini sa di entrare in un’azienda più o meno internazionale, ma caratterizzata dall’appartenenza all’Italia. Occorre dunque prepararsi andando a lavorare all’estero il più presto possibile?

E’ difficile avere “una ricetta” che valga per tutti, soprattutto rispetto alle tempistiche con cui tale passaggio andrebbe fatto. Se e’ vero che chiunque abbia l’ambizione di intraprendere una carriera internazionale debba, a un certo punto del percorso, essere disposto a lasciare il proprio paese per trasferirsi all’estero, e’ altrettanto vero che non e’ detto debba farlo il prima possibile. L’Italia, infatti, rappresenta indiscutibilmente una realtà importante a livello professionale per tutte le grandi multinazionali. L’affiliata Italiana offre tante esperienze diverse, una palestra su cui mettersi alla prova e crescere per gettare le fondamenta del proprio futuro; in fondo, la piramide si costruisce sempre su una solida base e fare una esperienza il più completa possibile nella propria affiliata e’ sicuramente un grande vantaggio quando si intraprende il percorso internazionale.

Q.3  Esiste una formula – dal punto di vista accademico – per diventare un valido pharma o biotech Executive a livello internazionale? Quanto è importante possedere un background scientifico o tecnico per ricoprire la posizione di CEO o Senior manager? E’ meglio avere un PhD in Microbiologia o un MBA con una Laurea in Medicina? Oppure esperienze nel condurre business in aree marketing o sales in mercati internazionali indipendentemente dal titolo di laurea?

Certamente in un settore altamente specializzato come quello Biotech, che si sviluppa intorno all’innovazione scientifica e da’ origine a prodotti altamente complessi e sofisticati, avere un background di tipo scientifico e tecnico rappresenta un indubbio vantaggio. Come spesso accade, tuttavia, la volontà di imparare e le esperienze multifunzionali possono colmare questo gap in molteplici aree del Biotech specialmente nei ruoli più generalisti nel Maketing, Market Access, Finance, Human Resources, e in altre aree ancora. La questione e’ diversa per quei ruoli specialistici dove la laurea scientifica e’ fondamentale come in Medical Affairs o Regulatory, e ovviamente in tutti quei ruoli in-field che sono a diretto contatto con la classe medica.

Q.4  Per quanto riguarda in particolare le Big Pharma o Società quotate, è l’appartenenza alla nazione in cui ha sede l’Azienda – nel suo caso statunitense – a premiare una carriera internazionale o corporate? Per la Sua esperienza, non vi è forte difficoltà a percorsi internazionali di carriera da parte di chi proviene dalle subsidiaries?

Nella mia esperienza non ho riscontrato alcun problema in tal senso, e mi sento di poter dire che lo stesso vale per i colleghi con cui mi confronto e che non arrivano dagli Stati Uniti, dove ha sede l’headquarter di AbbVie. AbbVie apprezza molto le diversità culturali e di esperienze, perchè i diversi punti di vista arricchiscono la discussione e portano, in ultima analisi, beneficio all’azienda.

Q.5 Parliamo di manager italiani o formatisi nel nostro Paese, di cui vi è un limitato numero in posizioni apicali nelle strutture Corporate, sia di società statunitensi che europee. Da cosa dipende? Formazione, cultura, oppure dal fatto che siamo un mercato dipendente da cultura e governance centralizzate fuori dal nostro Paese?

Se da un lato e’ vero che l’Italia, in quanto grande paese e mercato importante per tutte le multinazionali, offre molte opportunità di sviluppo professionale, e’ anche vero che pochissime multinazionali hanno headquarters localizzati nel nostro paese che offrono opportunità di sviluppo diverse e che preparano eventualmente per una carriera corporate.

Quindi le esperienze internazionali diventano fondamentali. Devo dire che rispetto al passato oggi noto che molti italiani sono più disposti a intraprendere questi percorsi professionali internazionali.

Q.6  D’altronde anche aziende internazionali o italiane o spagnole o di paesi emergenti registrano un management corporate con prevalenza di managers domestici. Questo significa che più della qualità del singolo Executive vale l’appartenenza culturale e valoriale? E quindi una carriera internazionale va costruita principalmente su valori culturali dell’azienda cui si appartiene e non su performances?

Nel mondo di oggi non credo che ciò sia riconducibile all’appartenenza culturale, perchè questo presupporrebbe un giudizio di merito sul valore di un Paese rispetto a un altro.

Al contrario, riscontro che molte aziende internazionali aspirano sempre di più ad avere una visione globale del mondo. Più semplicemente, ritengo che il motivo per cui il management corporate di un’azienda sia spesso in gran parte domestico sia esclusivamente un fattore numerico e statistico, ovvero l’azienda può attingere a un bacino di risorse superiore nel paese dove si trova l’headquarter.

Prendiamo il caso di un’azienda americana globale il cui fatturato, per quanto frutto di attività commerciali internazionali, sia in larga misura legato al mercato statunitense: e’ ragionevole pensare che il suo management sia espressione di quella realtà per ragioni prettamente statistiche legate alla preponderanza del business in quell’area e alla maggiore disponibilità di talenti.

Ciò non costituisce un assioma, tuttavia. Oggi, infatti, nelle posizioni di vertice delle aziende internazionali, ad un management domestico che ha maturato un’esperienza prettamente locale, si preferisce di norma un management che abbia invece esperienza internazionale e abbia dimostrato la flessibilità necessaria ad operare nella globalità offrendo alti livelli di performance.

Q.7   La presenza vivace di manager italiani a livello internazionale in funzioni quali R&D, Scientific, Tech Ops, International Business, etc., specialmente in aziende biotech e biopharma, può significare che imprenditorialità, competenza scientifica, innovazione, marketing di formazione italiana sono apprezzati? Quale il suo parere in proposito?

Come accennavo prima, ritengo che il management italiano sia di livello indubbiamente elevato, con in più una spiccata attitudine alla flessibilità e quel pizzico di genialità che tutti ci riconoscono. Rispetto al passato, poi, oggi riscontro anche una maggiore volontà di lasciare il proprio Paese ed esporsi all’estero: certamente un aspetto importante nell’ottica, come si diceva, di una carriera internazionale.

Q.8  Specie in aziende multinazionali globali si parla di “diversity” (diversi tipi di individui) e di “inclusion” (il collante che tiene insieme questi individui). Non sarebbe utile unire un terzo elemento “culture” (indipendenza di valori culturali)? E questo non darebbe più oggettività di carriera a manager che provengono sia da Corporate che da subsidiaries?

In base alla mia esperienza, ritengo che  questa evoluzione sia già in atto da tempo, almeno nelle multinazionali più evolute e con cui mi confronto quotidianamente. La mia percezione, come ho avuto modo di accennare prima, e’ che nelle organizzazioni esista una grande consapevolezza del valore e del ruolo che le diversità culturali e di pensiero hanno nel successo di un’azienda e ci si modelli di conseguenza.

Guardando alla realtà che conosco meglio, per esempio, il mix culturale tra i colleghi a me più vicini per ruolo e responsabilità e’ straordinario.

Q.9  Uno sguardo sul futuro del management. Abbiamo immaginato come le competenze in pochi anni faranno evolvere i ruoli attuali verso Market Access e Patient Centrity. Innovation potrà comprendere R&D. TechOps sarà dominato dagli avanzamenti tecnologici nei sistemi di produzione. Digital andrà a permeare l’interno e l’esterno dell’impresa farmaceutica, mentre la Governance dovrà coordinare con intelligenza strategica il business. A suo avviso, le aziende stanno preparando i futuri Executives a questa evoluzione di ruoli e competenze? Oppure l’accusa di immobilismo del management farmaceutico rispetto ad altre industries non permette politiche per preparare i cambiamenti futuri per il management?

In base alla mia esperienza in AbbVie e rispetto alle aziende con cui mi confronto regolarmente, ritengo che l’intera industria farmaceutica stia cambiando, e ad un passo decisamente sostenuto. Ormai tematiche di Market Access, Patient Centricity, Digital sono all’ordine del giorno nelle discussioni aziendali e in molti stanno sperimentando nuovi modelli di business che tengano conto di queste competenze, senza dubbio fondamentali per il successo di un’organizzazione. La mia percezione e’ che il modello farmaceutico nel suo insieme stia veramente cambiando per adeguarsi alle trasformazioni dell’ambiente esterno. E’ però importante aggiungere che se e’ vero che spesso le aziende cambiano perché forzate dagli eventi, in altri casi – come per AbbVie – il cambiamento e’ dettato dalla volontà di anticipare gli eventi. In entrambi i casi, sia quando l’organizzazione si adegua o si adopera per anticipare il corso degli eventi, una cosa e’ certa: oggi più che mai non si può più rimanere fermi ne’ può valere la scusa di immobilismo. Vale per ogni settore, direi non solo professionale, ma a maggior ragione nel farmaceutico. Se ci fossero dei dubbi, basterebbe confrontare l’articolato organigramma di un’azienda farmaceutica al giorno d’oggi con quello di 15 anni fa, in larga misura costruito esclusivamente intorno a figure di marketing e sales. Siamo tutti testimoni e artefici di questa evoluzione ed e’ certamente entusiasmante farne parte.

Q.10  Vi è un presupposto fondamentale per percorrere una carriera internazionale: il focus sulla propria vita personale e familiare. Occorre effettuare probabilmente delle rinunce, che molto spesso le nuove generazioni non accettano.

A suo avviso quale è il compromesso da raggiungere tra una carriera internazionale e la propria qualità di vita?

Si, credo che questo aspetto sia in effetti il nodo della questione e forse l’elemento più difficile di quanto abbiamo discusso finora. Quando si parla di carriere internazionali, in molti si concentrano solo su quanto di positivo una scelta di questo tipo possa offrire, spesso tralasciando di comprendere appieno i compromessi cui una decisione di questo tipo costringe.

La carriera internazionale può offrire oggettivamente tanto allo sviluppo del manager così come a quello della sua famiglia, ma porta con sé anche tanti compromessi dei quali occorre essere consapevoli fin dal principio. Non solo, occorre che di queste rinunce siano consce anche le persone più vicine, quantomeno quelle più impattate da tale scelta. Parlo con cognizione di causa perché mi e’ capitato spesso di constatare come scelte fatte senza considerare pienamente questi aspetti si siano poi rivelate disastrose nel lungo periodo. Anche in questo caso, non esistono “ricette” vincenti. Il segreto, a mio avviso, e’ trovare il proprio equilibrio in maniera tale che ci si possa concentrare sul lavoro senza perdere in serenità personale e familiare.