Sono numerose le citazioni, i paragoni, le sovrapposizioni tra GM o Executives aziendali e allenatori, coach di squadre di calcio, basket, rugby, pallavolo.
Quanti eventi, corsi, outdoor sono stati e sono sperimentati da consulenti di management aziendali, affiancati da nomi eccellenti provenienti dallo sport.
Ci siamo imbattuti in un interessante articolo di Carlo Ancelotti pubblicato su Wired (Inverno 2015/2016) e ci sembra curioso riferirne alcune considerazioni. In effetti, molto spesso nelle strutture aziendali, processi, tecnicalità, uso di sistemi sofisticati, pervasività di big data, i-cloud e simili sembrano annullare la qualità ed il valore della risorsa umana e del manager. In questo senso, il paragone tra allenatore/GM è tra Manager/giocatore può essere valido e dar luogo a valutazioni interessanti. Lasciamo a voi il paragone con il mondo aziendale.
«I pc. Le stampanti. Le telecamerine che riprendono gli allenamenti a bordocampo. I cardiofrequenzimetri legati intorno al petto dei calciatori. I gps nascosti nelle loro cannottiere…
Fino ad oggi molti di noi si sono affidati allo studio e alla raccolta dei big data che si dividono in due tipi: tecnici e fisici. Il dato tecnico ci spiega per esempio quanti passaggi oppure quanti tiri in porta, o ancora quanti colpi di testa si effettuano nel corso di una partita. Quello fisico, invece, riguarda aspetti come i metri che un giocatore percorre, a quale velocità, con quante accelerazioni o decelerazioni: è oggettivo, abbastanza interessante ma non troppo, utile negli allenamenti per calcolare il carico di lavoro da proporre alla squadra, tenendo sempre ben presente il fatto che ci si allena molto con il pallone fra i piedi.
Il primo, il dato tecnico, lascia il tempo che trova, anche se mi verrebbe da gridare che ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente inutile. Viene studiato e catturato solo nel momento in cui il calciatore ha la palla fra i piedi, ma la palla fra i piedi ce l’ha al massimo per novanta secondi su novanta minuti. Un po’ pochino, una miseria. Non è correlato al risultato finale della partita, perché non è detto che se collezioni un possesso palla del 60 percento e fai 30 tiri in porta, alla fine sarai tu il vincitore. Magari gli avversari se la cavano con un autogol e finisce 1-0 per loro.
L’unico dato tecnico direttamente legato al risultato, quindi il solo interessante e da prendere in considerazione, è il gol. Non sono mai stato un ultrà della tecnologia applicata allo sport, quantomeno al nostro. Do un’occhiata senza entusiasmarmi. Al Real Madrid avevamo un ingegnere che raccoglieva tutti i dati, poi li forniva al preparatore atletico che con me li valutava per organizzare un giusto programma di lavoro. Odiavo invece quando il reparto medico del club decideva di filmare gli allenamenti degli infortunati. Per esempio quelli di Jesé, per restare a uno degli utlimi casi famosi: si trattava di momenti strettamente privati, che tali avrebbero dovuto riamanere.
Quando guidavo il Chelsea, Florent Malouda, centrocampista francese, non voleva saperne di farsi mettere addosso un gps e il cardiofrequenzimetro. Non capiva che i big data che venivano raccolti – quelli fisici, non quelli tecnici, inutili – sarebbero poi stati usati in qualche modo per non sbagliare i carichi di lavoro.
So che esistono colleghi allenatori che decidono addirittura la formazione basandosi sui dati. Li considero dei matti: se ti fornisce maggiori garanzie da un punto di vista tattico, puoi anche mandare in campo un giocatore che non sta al cento per cento. Nella finale di Champions League del mio Milan, nel 2007 allo stadio Olimpico di Atene, nonostante fosse un rottame più a pezzi di un puzzle, ho schierato Pippo Inzaghi dal primo minuto: abbiamo vinto grazie a lui, ma se avessi ascoltato i sussurri dei computer e di chi da loro si fa guidare, probabilmente ciò che abbiamo vissuto non sarebbe accaduto. Sarebbe stato archiviato alla voce “desideri impossibili”. So che andrà avanti, che ci sarà un’evoluzione, che i gps diventeranno sempre più piccoli e verranno integrati nei cerotti, che da lì partirà un impulso verso uno schermo di qualche ufficio, che inizierà a lampeggiare. I medici esulteranno; io ci vedrò una sirena che suona l’allarme, loro invece una lucina che indica la via e si affideranno totalmente a ciò che quel cerotto racconterà. Con il medico del Real Madrid ci ho litigato, per esempio: non può essere un cervello artificiale a obbligarci a fare delle cose.
Il calcio è imprevedibile, come un terremoto, e davanti all’imprevedibilità o ti rassegni o ti ingegni affidandoti all’istinto, a ciò che hai imparato, a quello che sai o senti. Alla tua umanità. Un allenatore può inventare sempre qualcosa di nuovo, mai esisterà un calciatore con le stesse caratteristiche di un altro. Starà a noi trovare la maniera migliore per integrare l’uno con l’altro, per permettere loro di rendere al meglio, al cento per cento.
Io sono contro. Contro le interferenze tecnologiche che vogliono controllarmi il battito del cuore. Infatti, a occhi chiusi, penso al pallone e sento un treno dentro al petto, senza bisogno di cardiofrequenzimetro. So dove andremo a finire, non serve il gps per vederlo. Sono un uomo, non una macchina, quindi posso essere felice.»