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Carriere. Capitolo I – Le Scienze della Salute (parte 1)

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Capitolo I – Le Scienze della Salute (parte 1)

 

di Leonardo Frezza

 

Quando si approfondiscono storie di uomini e di aziende nella industry pharma del passato – come quelle di Roberto Crea, ricercatore-imprenditore di successo, con la scoperta dell’insulina umana artificiale, oppure di Napoleone Ferrara, determinante per le fortune di Genentech (http://www.management-planet.it/magazine/genenta-science-il-biotech-italiano/) – ci si sofferma talvolta sulla consapevolezza che entrambi si siano formati in Italia ma poi si siano realmente affermati in Silicon Valley.

E’ tutta italiana, invece, la storia di Rino Rappuoli, pionere dei veccini che ha recentemente vinto un Erc Advanced Grant per un progetto di ricerca, in collaborazione con Toscana Life Sccience, contro l’antibiotico-resistenza (http://www.management-planet.it/rino-rappuoli-vince-il-grant-per-il-progetto-di-ricerca-contro-lantibiotico-resistenza/).

Oggi poi leggiamo sui giornali il nome di Alessandro Sonnino e di Gelesis, società biotech che opera in R&D nel Leccese, e che ha preferito il Salento a sedi israeliane o statunitensi. O di Bio4Dreams, il primo incubatore italiano a capitale interamente privato e focalizzato sulle Life Sciences, specificatamente per i settori biotech e medtech. E dunque ci si chiede se le opportunità di crescita nel nostro Paese siano in aumento, rispetto al passato.

Tuttavia se è facile parlare delle storie di talento e di successo, è ben più complicato approfondire la consistenza e la ricchezza di quel capitale intellettuale e manageriale che opera attualmente nell’ambito dell’industria che si occupa di scienze della salute, dal farmaceutico al biotecnologico, ai dispositivi medicali.

[member] In premessa, cerchiamo di fornire una spiegazione sulle tante dizioni che servono ad identificare l’industria farmaceutica, biofarmaceutica, biotecnologica o di dispositivi medicali. Si parla di “life sciences” (scienze della vita), di “health sciences” (scienze della salute). Sul termine “life sciences” va detto che fu adottato alla fine degli anni novanta da aziende quali Aventis e Pharmacia. I motivi risiedevano nella visione aziendale di porre sotto lo stesso coordinamento “corporate” mercati differenti ma attraversati da prodotti dal contenuto biologico e non di sintesi chimica, quali il biofarmaceutico, il nutrizionale ed il bio-agricolo. Questo indirizzo venne meno in parte per l’opposizione europea agli organismi geneticamente modificati (OGM). E poi salute e tecnologie per prodotti agroalimentari si rivolgono a mercati completamente differenti. Ed il risultato fu che Novartis, Pharmacia e Astrazeneca separarono i business agro e nutrizionali, così come Aventis.

Secondo questa interpretazione, la terminologia “scienze della vita” o “life sciences” esprime un concetto più ristretto di quello riferito a “scienze della salute”. E lo dovrebbe esprimere per le aree di prodotto biologico o biotecnologico. Il che vorrebbe dire che i prodotti farmaceutici dovrebbero far parte di questa terminologia in particolare se si tratta di biofarmaceutica, orizzonte verso il quale molte aziende farmaceutiche si sono incamminate con la simbiosi tra farmaceutica e biotecnologia.

In questo testo, quindi, tra le varie dizioni, quella che più agevolmente si può adottare è riferita alla “scienze della salute”, al cui interno convivono anche farmaceutico, biofarmaceutico, biotecnologico, biologico, dispositivi medicali.

Questi settori sono entrati in un periodo di transizione verso un cambiamento strutturale sia di contesto di mercato sia di modelli di business. E certamente entrano in crisi talune formule organizzative e, perché no, professioni, ruoli che sino a ieri sembravano fondamentali. Mentre invece si sviluppano e si rafforzano altri modelli strutturali, altri ruoli, altre carriere.

Tali evoluzioni, che possono essere definite fisiologiche nella storia di ogni business, nel farmaceutico non sono certamente marginali, ma nemmeno determinanti.  Ma in questo caso si evidenzia, con uno scarto di gran lunga migliore, la positività e la qualità di organizzazioni e professionisti. Occorre parlare delle risorse, delle professionalità, delle carriere, di qun settore che fa parte dell’industria high-tech. Si definisce come tale l’industria in cui le nuove conoscenze nella scienza e nell’ingegneria perseguono le opportunità commerciali – per sviluppare e portarli ad uso pubblico – nuovi prodotti basati appunto sulle nuove conoscenze [1].

Parliamo in prevalenza del settore farmaceutico, ma anche di quello biotecnologico. Anzi, una buona parte di aziende pharma ormai si autodefiniscono come biofarmaceutiche, in un concetto ampio che comprende sia farmaceutica che biotecnologia. Parliamo anche dei presidi medicali, che pur non trattando generalmente prodotti con principi attivi, interagiscono in maniera prepotente, e ne sono parte integrante, con le “scienze della vita”.  Infatti i nuovi strumenti diagnostici biotech che agiscono a livello genetico o proteico sono in grado di verificare le origini di un possibile disturbo.

Si discute e si danno pareri e definizioni, naturalmente secondo l’ottica dell’argomento da trattare. Lo si interpreta come un business basato sulla scienza. Il che richiede differenti approcci organizzativi, normative non da libero mercato e qualificazioni manageriali tipicizzate. In parole semplici, quello che funziona in altri settori, sovente non può funzionare nel settore farmaceutico.

E’ per definizione una delle industries a più alta intensità di ricerca. E’ solo dagli anni settanta del secolo scorso che le aziende farmaceutiche sono divenute regionali o globali, anche dinanzi alla prevalenza precedente delle industrie chimiche, dalle quali l’industria farmaceutica ha origine.

Ad oggi il mercato Farmaceutico si definisce certamente come uno dei settori principali dell’economia dei paesi industrializzati.

 

Fonte: Farmindustria, dati PWC -The 2017 Global Innovation 1000 study, Evaluate Pharma

 

Lo si considera dal punto di vista dello sviluppo, della conoscenza scientifica, del valore aggiunto. Insieme al settore ICT, le scienze della salute sono uno dei grandi mercati del presente e del futuro poiché basate sulla tecnologia e sulla conoscenza scientifica, fattori chiave per disegnare i megatrends che accompagneranno lo sviluppo globale. Con la ricerca quale forza trainante. E’ sufficiente far riferimento alle tecniche di biologia molecolare, alla biotecnologia, alla decifrazione del genoma umano ed animale, con opportunità di enorme interesse scientifico e con ricadute applicative ed industriali.

 

Le dimensioni del settore. Fliera della salute e “white economy”

La tarda primavera di ogni anno vede la celebrazione delle assemblee delle varie associazioni industriali che raccolgono le imprese per tipologia di mercato e che poi si ricompongono in Confindustria. Il periodo dell’anno deriva dall’oggettiva ragione di consuntivare i risultati dell’anno precedente. Il rituale è quello solito: Presidenti che espongono le politiche, gli indirizzi, le problematiche, con dinanzi solitamente un parterre di politici, giornalisti e naturalmente industriali e managers. Ma ciò che è davvero interessante, si espongono dati economici, occupazionali, di contesto sia italiano che internazionale. Questo accade anche per le maggiori Associazioni che riguardano le aziende che hanno rilievo per questo testo. Quelle che operano nelle cosiddette Scienze della Vita: Farmindustria, Assogenerici, Assobiomedica, Assobiotec, Aschimfarma.

Ora, i dati forniti rilevano ed interpretano l’andamento del singolo settore e ci danno maniera di contestualizzare quegli argomenti che non sono presenti ma altrettanto importanti: organizzazioni, strutture, management, professioni, ruoli competenze. Ed in particolar modo le persone che operano all’interno con le loro professionalità ed aspirazioni.

Per avere un quadro globale in cui inserire queste aree e le persone che vi lavorano, sembra opportuno agganciarsi alla cd “filiera della salute”. In effetti, l’industria della sanità cura l’economia e la società del Paese e la stessa Confindustria riassume nei suoi periodici rapporti il grande valore economico e sociale che il comparto costituito da sanità pubblica, impresa provata e indotto mette al servizio dell’Italia.

In particolare, secondo uno studio realizzato proprio da Confindustria insieme alle Associazioni confederali di categoria che rappresentano la filiera stessa (Aiop, Farmindustria, Federchimica e Federteme), la cd “white economy[2]” è un potente driver dell’economia italiana, contribuendo al PIL nazionali per il 10.7% e dando lavoro ad oltre 2,4 milioni di persone con circa il 10% dell’occupazione complessiva.

Il perno decisivo della “white economy” è costituito dall’industria privata della salute: un settore in cui i principali indicatori di performance – nonostante la crisi – registrano miglioramenti significativi sia in termini percentuali, rispetto al totale nazionale, sia in termini assoluti. La filiera della salute “privata” (manifattura, commercio e servizi sanitari privati) rappresenta da sola, rispetto all’economia del Paese, il 4,9% del fatturato (144 mld di euro), il 6,9% del valore aggiunto (49 mld di euro), il 5,8% dell’occupazione (circa 910.000 persone) e il 7,1% delle esportazioni (oltre 28 mld di euro), con valori tutti in crescita.

Un gigante economico, ma anche un comparto industriale anticiclico: di fronte ad un valore aggiunto complessivo dell’economia italiana rimasto pressoché invariato tra il 2008 ed il 2015, il Rapporto di Confindustria (2018) rileva che quello della filiera della salute è crescito del 14,3%. Ancora migliore è il dato sull’occupazione (in gran parte altamente qualificata), in aumento del +3.35% tra il 2008 ed il 2018, contro un dato nazionale negativo (-9.2%).

Il posizionamento competitivo dell’Italia nella filiera, inoltre, risulta essere più forte. Significativi sono infatti gli investimenti in ricerca e innovazione (circa 2.8 mld di euro in valore assoluto nel 2016) e la crescente partecipazione delle imprese parte della filiera ai bandi europei per la ricerca è la testimonianza della costante aspirazione verso un modello vincente ed innovativo.

La “white economy”, dunque, è uno dei principali strumenti di sviluppo dell’economia in cui l’Italia – rispetto alle classifiche internazionali – possiede un buon vantaggio competitivo, anche grazie all’integrazione virtuosa tra componente pubblica e privata e all’eccellenza sicuramente espressa dalla componente medico-professionale. Un mix unico, che per svolgere in pieno il ruolo di leva per lo sviluppo economico deve essere considerato e valorizzato come ambito di politica industriale, promuovendo le eccellenze anche al di fuori del contesto italiano.

Abbiamo voluto riportare questi dati per riflettere sulla complessità di un’area industriale che è davvero importante per quanto attiene il valore aggiunto, l’innovazione tecnologica e la ricerca e sviluppo. E dunque l’elevato grado di complessità delle organizzazioni e la qualità professionale per le conoscenze necessarie. Chi si inserisce in questi settori come giovane laureato o chi cresce e si consolida sia professionalmente che managerialmente può riflettere su questi numeri che, pur denotando un peso relativo di industria per produzione e occupazione nel contesto mondiale e domestico, indicano però un settore basato sulla scienza in crescita nei prossimi due decenni, secondo tutte le proiezioni economiche che fanno riferimento alle evoluzioni sociali insite nella domanda di cura.

Il contesto attuale e futuro, con i suoi chiaroscuri, dal lato delle risorse umane e del capitale intellettuale, registra un dato fondamentale: la domanda incrementale di ruoli negli affari regolatori, nelle ricerche cliniche, nella farmacovigilanza, nel market access, nel marketing e nelle vendite, etc. E’ dato per accertato che le aziende nelle scienze della salute stanno affrontando quella che, con una dizione abusata, viene chiamata la guerra dei talenti.

Il successo è determinato anche dall’abilità di catturare e trattenere risorse competenti. In un periodo tumultuoso in cui le fasi di cambiamento sono particolarmente accelerate ed il periodo di instabilità continuerà per i prossimi anni, in cui vi saranno vincenti e perdenti (fenomeno abbastanza insolito in questo settore), avere organizzazioni e uomini all’altezza della sfida diviene una questione basilare.

E qui desideriamo parlare in particolar modo delle persone, di quelle nella ricerca, nella produzione, nel commerciale o nelle stanze dedicate a strategia, finanza o capitale umano. Questo settore è sì basato sulla ricerca, sulla finanza, sulle capacità produttive, ma fondamentalmente sulla qualità, sul sapere, sulle organizzazioni, sui talenti, sulle competenze, sulla passione.

 

Il settore farmaceutico in Italia. Dati di settore ed occupazione

La prospettiva europea delle Scienze della Salute va tenuta presente poiché l’Italia gioca prevalentemente al suo interno ed anche perché i recenti modelli occupazionali, professionali e specialistici hanno una relazione sempre maggiore tra i paesi europei. Ciò significa che chi desidera fare carriera in questo settore deve avere uno sguardo ed una disponibilità su percorsi al di fuori del nostro Paese.

In generale, in questi anni le imprese del farmaco si sono affermate come un motore di crescita fondamentale per il nostro Paese e per l’Europa stessa.

L’Italia è il secondo produttore farmaceutico europeo (dopo la Germania) e tra i Big nel continente rappresenta il 25% della produzione totale ed il 18% del mercato. 60.000 addetti (90% laureati e diplomati, di cui il 44% donne) e altri 66.000 nell’indotto. 6.200 addetti della R&S, 30 mld di produzione (di cui 21 mld destinati all’export), 2,7 mld di investimenti.

L’industria farmaceutica è un asset strategico dell’economia italiana.

Qualche dato da Farmindustria:

  • dal 2010 al 2017 è il settore con la più alta crescita;
  • dal 2014 l’occupazione è cresciuta del 5%, con 3mila addetti in più (con prevalenza in produzione e ricerca);
  • valore più alto per investimenti in R&S in rapporto al valore aggiunto (17%, 10 volte la media nazionale)
  • consumi energetici diminuiti negli ultimi anni (-63%)
  • il 90% delle imprese sta adottando sistemi di Innovazione 4.0 nella produzione
  • Italia è il secondo Paese UE per produzione di medicinali (30mld) ed il primo per produzione procapite
  • L’export (oltro il 75% della produzione) cresce più che nella media UE (dal 2010 al m2017 +73% rispetto al +43%)

 

Per quanto riguarda invece il settore delle Biotecnologie a fronte di un incremento del fatturato generato da attività biotech rispetto al 2014, si riscontra una lieve flessione degli investimenti in R&S intra-muros dedicati alle biotecnologie. Tale dato è condizionato, in particolare, dalle decisioni di investimento di poche grandi imprese attive nel comparto della salute (red biotech), sebbene, per la stessa area, anche nella classe delle piccole e delle micro imprese non siano mancati dei segnali negativi sui quali riflettere. In controtendenza, invece, ancora nell’area della salute, le medie imprese.

In particolare, per quanto riguarda le imprese specializzate nella R&S nelle biotecnologie, si registra un aumento delle imprese che operano nell’area del biotech industriale (white biotech) e nell’agro-alimentare (green biotech), così come dei loro investimenti in R&S e fatturati, in linea con il crescente ruolo di questi settori rilevato da più analisi internazionali. È importante sottolineare l’ottima performance degli investimenti in R&S delle micro imprese nel green biotech che sono quasi raddoppiati nell’ultimo anno.

L’occupazione totale resta fondamentalmente stabile e si conferma elevata la quota di addetti in possesso di laurea (circa i ¾ del totale).

La distribuzione territoriale del fatturato biotech risulta altresì particolarmente polarizzata a livello territoriale. Le prime 3 regioni in termini di contributo (Lombardia, Lazio e Toscana) ne rappresentano complessivamente quasi il 90%, una quota dovuta in massima parte all’elevata presenza di imprese attive nelle biotecnologie applicate al campo della salute umana.

 

Quello biotecnologico è un settore affascinante specialmente per neolaureati in materie attinenti, per ricercatori, per chi si dedica allo sviluppo, alle alleanze, al business nel suo complesso, poiché al suo interno si trovano formule innovative di ricerca e di management, con legami internazionali.

Il biotech italiano si conferma comunque come un comparto ad elevato tasso di scolarizzazione. In particolare, la quota di addetti al biotech in possesso di laurea è pari a circa il 70% (in lieve crescita nel 2016 rispetto al 2015), e tale quota supera l’82% se si considerano le imprese specializzate nella R&S biotecnologica.

Più del 75% delle imprese specializzate nella R&S biotech sono di piccolissima dimensione, mentre le grandi rappresentano poco meno del 3%, in diminuzione del 12% rispetto al 2014.

La concentrazione più elevata di micro imprese si riscontra tra quelle attive nelle biotecnologie appli-cate al settore agricolo e zootecnico (85%), mentre le grandi imprese sono presenti solo nell’ambito di quelle attive nel settore delle biotecnologie applicate alla salute umana e in quelle attive nelle biotecnologie industriali.

 

[1] Alfred. D. Chandler: Shaping the Industrial Century, Harvard Press University, 2005, pag.3

[2] Con il termine “white economy” si identifica il settore dei servizi sanitari e di cura rivolti alle persone: tutto ciò che si riferisce alle cure mediche, alla diagnostica e all’assistenza professionale e domiciliare in determinate strutture per disabili, anziani e persone malate.
All’interno di questo settore rientrano anche l’industria farmaceutica e l’industria per le apparecchiature biomedicali e per la diagnostica [/member]