People & Management

I Dirigenti e la crisi di mezza età

Riportiamo una parte di un articolo del 1999 di Peter Drucker, pubblicato sulla Harvard Business Review. E’ di una attualità evidente.

La seconda metà della nostra vita

“(…) Sentiamo parlare tantissimo della crisi di mezza età del dirigente. Essa si deve principalmente alla noia. A 45 anni, quasi tutti i dirigenti sono arrivati all’apice della propria carriera, e lo sanno. Dopo 20 anni trascorsi facendo più o meno lo stesso lavoro, sono diventati bravissimi. Ma non imparano più, non contribuiscono più, non ricavano più sfide e soddisfazioni da quell’attività. Eppure hanno davanti ancora altri 20 o 25 anni di lavoro. Ecco perché l’autogestione porta sempre di più a optare per una seconda carriera.

Ci sono tre modi diversi per sviluppare una seconda carriera. Il primo è continuare da un’altra parte. Spesso significa semplicemente passare da un’organizzazione all’altra: il controller della divisione di una grande azienda diventa per esempio il controller di un ospedale di medie dimensioni. Ma c’è sempre più gente che cambia radicalmente lavoro: il dirigente d’azienda o il funzionario pubblico che si fa prete a 45 anni; o il manager intermedio che dopo 20 anni lascia l’azienda, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza e diventa avvocato in una cittadina di provincia.

In molti casi la seconda carriera viene intrapresa da persone che hanno avuto un successo limitato nella prima parte della loro vita lavorativa. Questi soggetti hanno ottime competenze e sanno lavorare; hanno bisogno di entrare a far parte di una comunità – la casa è vuota perché i figli se ne sono andati – e hanno bisogno anche di un reddito. Ma soprattutto ricercano una sfida.

L’altro modo per prepararvi alla seconda metà della vostra vita è sviluppare una carriera parallela. Molte persone che hanno avuto successo nella loro prima carriera continuano a fare quel lavoro, full-time o part-time, o come consulenti. Ma si trovano anche un lavoro parallelo, di solito in un ente non-profit che assorbe altre 10 ore di lavoro alla settimana (…).

Infine, ci sono gli imprenditori sociali. Si tratta generalmente di persone che hanno avuto un grandissimo successo nella prima carriera. Amano il loro lavoro, che però non le soddisfa più. In molti casi, continuano a fare esattamente quello che facevano prima, ma vi dedicano sempre meno tempo. Allora avviano un’altra attività, di solito non a scopo di lucro (…).

Coloro che gestiscono attivamente la seconda metà della propria vita saranno sempre una minoranza. La maggioranza tende a “mettersi psicologicamente in pensione” e conta gli anni che mancano al pensionamento effettivo. Ma saranno i componenti di questa minoranza, fatta di uomini e donne che vedono in una lunga aspettativa di vita lavorativa un’opportunità sia per se stessi, sia per la società, a divenire leader e modelli di ruolo.

C’è un prerequisito per gestire bene la seconda parte della vostra vita: bisogna cominciare con largo anticipo. Trent’anni fa, quando si è capito che l’aspettativa di vita lavorativa si stava allungando molto in fretta, molti osservatori (compreso il sottoscritto) erano convinti che i pensionati si sarebbero offerti sempre di più come volontari per le istituzioni non profit. Non è andata così. Se non si comincia a fare volontariato prima dei 40 anni, non lo si farà certo dopo i 60 (…).

C’è un’altra ragione per sviluppare un secondo interesse lavorativo, e per farlo in giovane età. Nessuno può aspettarsi di vivere a lungo senza sperimentare serie difficoltà nella propria vita personale o lavorativa. C’è l’ingegnere ultraprofessionale che viene scavalcato in una promozione all’età di 45 anni. C’è la docente di college che a 42 anni si rende conto che non otterrà mai una cattedra in una grande università, pur avendone tutti i titoli. E ci sono anche le tragedie familiari: il divorzio e la perdita di un figlio. In queste situazioni, un secondo interesse lavorativo – non solo un hobby – potrebbe fare la differenza. L’ingegnere, per esempio, adesso sa di non avere un particolare successo nel suo lavoro. Ma nella sua attività esterna – per esempio di tesoreria della chiesa locale – è apprezzatissimo. Se la famiglia si divide, nella attività esterna c’è sempre una comunità su cui fare affidamento .

In una società in cui il successo è diventato importantissimo, avere opzioni alternative sarà sempre più indispensabile. Storicamente, non è mai esistito il concetto di “successo”. La stragrande maggioranza delle persone non si aspettava nient’altro che rimanere “al proprio posto”, come recitava un’antica preghiera inglese. L’unica mobilità possibile era quella verso il basso.

Ma nella società delle conoscenze ci aspettiamo che tutti abbiano successo. E’ chiaramente impossibile. Per tantissimi è già molto non subire rovesci. Ma dove c’è il successo, c’è anche l’insuccesso. E quindi è fondamentale, per l’individuo, e anche per la sua famiglia, avere a disposizione un’area in cui poter dare un contributo, fare la differenza ed essere qualcuno. Significa trovare una seconda area – una seconda carriera, una carriera parallela o un’iniziativa sociale – che offra la possibilità di essere leader, di essere rispettati, di avere successo (…).

Ogni società, anche al più individualistica, dà per scontate due cose, quantomeno a livello di subcosciente: che le organizzazioni sopravvivono ai lavoratori, e che la maggior parte delle persone rimangono dove sono.

Ma oggi è vero il contrario. I lavoratori delle conoscenze sopravvivono alle organizzazioni, e sono mobili. La necessità di autogestirsi sta creando perciò un’autentica rivoluzione nelle vicende umane.”

(Peter Drucker, Harvard Business Review,  marzo-aprile 1999)