Un percorso formativo appena concluso all’Harvard Business School e tre figli piccoli da accudire. Se qualcuno avesse osservato la vita di John Crowley in quel momento, come in un’istantanea, avrebbe pensato che si trattava di un uomo molto fortunato, che non avrebbe potuto chiedere di più dalla vita. Ma non è l’assenza di difficoltà a rendere una vita straordinaria, bensì la forza e la caparbietà con cui si è in grado di reagire davanti agli ostacoli e la capacità di riorganizzare, di conseguenza, la propria esistenza.
Quando a Crowley fu comunicato che due dei suoi tre figli, Megane di 13 mesi e Patrick di 7, probabilmente non sarebbero arrivati ai 2 anni perché affetti dalla malattia di Pompe, egli [member] non esitò a lasciare tutto e a trasferirsi nel New Jersey, per essere più vicino a medici specializzati.
La malattia di Pompe, o glicogenosi di tipo II, appartiene alla famiglia delle malattie da accumulo lisosomiale ed è caratterizzata dal mancato smaltimento del glicogeno, che accumulandosi danneggia il cuore, i muscoli di gambe e braccia e quelli della respirazione. Accettato un nuovo impiego nell’azienda farmaceutica Bristol-Myers Squibb, Crowley iniziò a dedicarsi alla ricerca e alla medicina. Le basi della ricerca biomedica, totalmente estranee al suo precedente percorso formativo, finirono per scandire ogni minuto delle sue giornate, divise tra l’impegno aziendale e quello profuso per l’istituzione di una fondazione per la raccolta di fondi destinati alla ricerca e alla divulgazione sulla malattia di Pompe. Crowley diventò anche un importante ponte tra i ricercatori europei e americani che stavano conducendo ricerche indipendenti su questa patologia e che non si erano mai confrontati prima.
Nacque così un dibattito internazionale, di cui Crowley fu protagonista instancabile: nel 2000 fondò Novazyme, azienda farmaceutica il cui unico scopo era sviluppare un farmaco per la malattia di Pompe; tre anni dopo, Megan e Patrick poterono finalmente ricevere la terapia di sostituzione enzimatica sviluppata nell’azienda del padre, che riuscì a migliorare la loro forza
muscolare e a ridurre il sintomo di ipertrofia cardiaca. In cuor suo, però, Crowley sentiva di dover fare di più: lasciò così la Novazyme (nel frattempo acquisita da Genzyme) per diventare presidente e amministratore delegato prima di Oroxigen, e successivamente di Amicus Therapeutics, azienda biotech che si occupa dello sviluppo di farmaci per la malattia di Pompe, la
malattia di Fabry e l’epidermolisi bollosa. Qui, si dedicò giorno e notte al tentativo di individuare una strategia di cura per queste patologie che fosse più incisiva della terapia enzimatica, convinto che questa potesse essere la chiave di volta per migliorare la qualità di vita dei pazienti. Gli stessi pazienti di cui parla sorridendo a ogni conferenza e il cui volto è l’immagine portante di ogni rappresentazione commerciale dell’azienda.
Anche l’Italia ha avuto un ruolo importante in questa storia, non solo perché, perso il padre da bambino, Crowley fu cresciuto da un nonno napoletano e da una nonna palermitana, ma perché fu poi l’incontro con Gianfranco Parenti, ricercatore del dipartimento di Pediatria dell’Università di Napoli, a segnare un importante traguardo nella vita di Crowley e nello sviluppo della terapia chaperonica. Nel 2005 Parenti ottenne da Telethon un finanziamento per un progetto di ricerca che mirava a valutare le potenzialità di alcuni farmaci, detti chaperones, come prospettiva terapeutica per la malattia di Pompe, per contrastare in modo ancora più efficace i danni ai muscoli scheletrici. Due anni dopo, Parenti venne contattato dall’Amicus Therapeutics per avviare una collaborazione, a seguito dei primi risultati incoraggianti sull’efficacia di due chaperones, testati, al tempo, in cellule umane estratte da pazienti con malattia di Pompe e apparsi in grado di contrastare i danni muscolari provocati dalla patologia. Amicus è nata così: un gruppo di persone sedute attorno a un tavolo e unite dalla volontà di creare prodotti farmaceutici innovativi e accessibili a tutti, in cui il paziente fosse il vero protagonista di ogni processo e presente in ogni singola decisione di business. “Quando ci siamo seduti a quel tavolo non eravamo sicuri che la terapia chaperonica avrebbe funzionato meglio di quella enzimatica. La perseveranza è uno dei nostri valori fondamentali: quando nel 2006 abbiamo dovuto interrompere 3 dei 5 programmi della nostra pipeline, non è stato facile spiegare ai pazienti le ragioni di questa decisione. Nonostante la difficoltà, non ci siamo arresi, e proprio pochi giorni fa abbiamo ricevuto la conferma degli ottimi risultati ottenuti con la terapia chaperonica sui pazienti affetti dalla malattia di Fabry”, ha spiegato Crowley in occasione della
presentazione italiana di Migalastat, farmaco orfano che costituisce la prima terapia orale per la malattia di Fabry, la cui immissione in commercio in Italia è stata autorizzata nel marzo 2017 successivamente alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
(fonte: Osservatorio sulle Malattie Rare) [/member]