People & Management

Talenti e idee … controcorrente

“Di certo, non giova la moda con cui le aziende si sono impadronite del tema talenti, “cavalcandolo” come un mantra e facendone una delle più recenti ossessioni della loro pratica manageriale. Ovunque la gestione dei talenti diviene la cartina di tornasole della modernità aziendale, la punta avanzata delle sue pratiche di sviluppo e, insieme, l’assoluzione-foglia di fico delle su carenze culturali e della sua rigidità gerarchica.

Si seleziona in funzione di una scrematura iniziale delle risorse, si studiano percorsi dedicati, si parte persino per una roboante guerra dei talenti, nella presunzione che ci sia una carenza cronica che va fronteggiata forzando la concorrenza e avendo la meglio sui partecipanti.

Intorno al tema, poi, c’è un eccesso di retorica che non aiuta certo a fare chiarezza, con questa propensione crescente ad accumulare pratiche “virtuose”, sottolineature che sembrano immaginare sempre e solo l’imbuto selettivo, e nessuna riflessione seria sugli handicap che una visione così assolutista del problema pone agli equilibri interni dell’organizzazione. La qualifica del talento come un unicum, radicalmente distinguibile dai non-talenti e per questo destinabile a un percorso di carriera separato, è solo una semplificazione molto rozza della realtà, che induce all’errore e predispone poi a pagarne le conseguenze.” (…)

“La teoria per la quale bisogna “intrappolare” il sistema tra chi avrebbe talenti e dotazioni personali superiori e chi, invece, ne sarebbe privo, avvalla semplicemente lo spreco di risorse, senza rendersi conto della ricchezza rappresentata dai saperi potenziali di quanti non scalano le classifiche dei test o non brillano per performance targhettizzate dalla consulenza ufficiale”. (…)

“La fatica di seguire tutti “secondo talento e misura” è solo un falso problema manageriale, poiché molto più semplicemente ciò nasconde la convinzione che qualche élite ben curata valga nettamente più dello sforzo di far trovare ognuno al posto giusto con le motivazioni giuste per esprimersi. Le élite di traino servono senza alcun dubbio, ma solo se non si creano scale di classi per cui nella separazione si celebrano i fasti inappropriati di una diversità sanzionata e benedetta, visto che ogni organismo, nella realtà, funziona se tutte le sue parti si equilibrano in scambi e contributi a misura di competenze.” (…)

“L’enfasi prematura su potenziali in tiro di carriera disancorati da una cultura collaborativa ha almeno tre controindicazioni forti. La prima è che rischia di creare privilegiati il cui destino inevitabile è quello di essere percepiti come “elementi di contraddizione” , più o meno detestati e spesso avversati, con inevitabile nocumento operativo. In secondo luogo, la probabilità di farne campioni di uno specialismo tutto settoriale, virato a investire nelle competenze del mestiere in cui eccellono, può portare ad un impoverimento reale dei valori sociali e culturali dell’impresa, facendo sì che nel tempo ci si ritrovi con degli ottimi professionali e dei mediocrissimi talenti manageriali. La terza contraddizione è più subdola e all’inizio meno evidente, perché cure debordanti ed enfasi nel promuoverli fanno spesso dei talenti pregiati dei cercatori di status senza filtri, pronti ad inseguire soddisfazione e retribuzioni maggiorate nel passare da un’azienda all’altra, veri e propri “legionari stranieri” senza patria e legami affettivi.

Avere talento, quindi, è sia una benedizione che un rischio, soprattutto per l’azienda che non mette bene a fuoco il problema, con la conseguenza di danneggiare se stessa per eccessivo di sovrainvestimento o di scarsa lungimiranza.

Che al teoria del “talento” da privilegiare sia un falso obiettivo è anche confermato dalle ultime mode d’oltreoceano. Non si seleziona più il talento per la posizione per cui risulterebbe adatto, bisogna valutare se ha potenziale anche per un futuro posto superiore, altrimenti non fa neppure il passo intermedio. Si introduce così la sottospecie dei “talenti a corto raggio”, affetti da un “potenziale riluttante” che induce la sedazione prudenziale delle carriere, e la catena quindi si allunga, le variabili sfumano e le pedine aspettano un turno che potrebbe anche non arrivare mai. Con quanta soddisfazione è immaginabile.

La ricerca ossessiva del “passo successivo”, con l’omaggio crescente al dio “acceleratore dei tempi”, rischia di bruciare la maturazione del “frutto” che, come in natura, richiede il suo tempo. Il risultato sarà quello di lavorare tanto per produrre “talenti sprecati”, loro malgrado.”

 

Tratto da “Capitani senza gloria. Vizi e virù dei manager italiani” di Pier Luigi Celli (Codice Edizioni srl, 2016)