di Gerald F. Davis
Berret-Koehler Publishers
E’ difficile da credere nell’era del gigantismo e della globalizzazione, ma il numero delle grandi imprese americano è in declino. Anzi, è drasticamente crollato nel quindici anni che vanno dal 1996 al 2012: alcune tra le più storiche sono andate in bancarotta (General Motors, Chrysler, Eastman Kodak) oppure si sono spappolate in componenti più ridotte (Alcoa, Hwlett Packard, Time Warner) oppure sono definitivamente sparite (Bethlehem Steel, Lehman Brothers, Borders). Ciò è sicuramente dovuto alla crisi economica e al consolidamento dei settori, ma molto è determinato anche dall’obsolescenza delle grandi dimensioni aziendali.
Le grandi aziende erano un tempo un costrutto fondamentale della classe media. Offrivano a milioni di persone impieghi a vita, percorsi di sviluppo professionale pianificati, retribuzioni in crescita, assicurazioni sanitarie e pensioni a fine carriera. Erano, come dire, dei piccoli paradisi del welfare. Come ci ha insegnato per anni il grande storico Alfred Chandler, in America nel 1950 il senso dell’economia industriale era quello di assemblare automobili in stabilimenti giganteschi integrati verticalmente e di spedirle da lì verso il resto del mondo.
Le organizzazioni contemporanee hanno perciò minato le fondamenta di quel sistema del passato. Innanzitutto impiegano meno persone: la forza lavoro cumulata di Facebook, Yelp, Zynga, LinkedIn, Zillow, Tableau, Zulily e Box è meno numerosa di coloro che hanno perso le loro mansioni quando Circuit City (il secondo distributore di consumo elettronico) è stata liquidata nel 2009. E anche le imprese più frizzanti ed emergenti rimangono piccole e non diventano grandi. E nella tanto osannata sharing economy le aziende hanno nei confronti delle proprie risorse umane sempre meno obblighi occupazionali (si pensi al caso di Uber, dove nel 2016 esistevano negli USA 200mila autisti volanti, ma solo 2400 persone erano riconosciute come dipendenti in organico, e lo stesso fenomeno si ritrova in AirBnB o in altre imprese “piattaforma”).
Il risultato di tutto ciò è che, mentre nel ventesimo secolo l’economia americana era dominata dalle grandi corporation, nel ventunesimo ciò non sembra più vero. E anche le “sirene” della cosiddetta distruzione creatrice (oggi la parola più ripetuta nei manuali di management è disruption, concetto che spinge le aziende a rompere gli schemi consolidati del settore al fine di inserirsi sul mercato con un progetto innovativo) sembra abbiano messo più accento sulla dimensione distruttiva che sulla distruzione creativa.